A vent’anni da sola fa 2mila chilometri a cavallo verso la Patagonia.
Là incontrerà un capo indio che le strega per sempre il cuore.
LIVORNO. Non avremmo la gabbianella Fortunata e il gatto Zorba che le insegnò a volare, non ci saremmo lanciati a cercare il tesoro della Collezione della Mezzaluna Errante, non avremmo capito cosa c’è nella capanna di Antonio José Bolívar: non avremmo avuto, insomma, le storie di Luis Sepulveda – il grande romanziere cileno cantore degli oppressi morto con il coronavirus – se una ragazza livornese di neanche vent’anni non avesse fatto la valigia e, insieme ai fratelli, non avesse preso un bastimento per andarsene via dalla Livorno dove di lì a poco avrebbero costruito le terme liberty al Corallo, avrebbero messo i primi lampioni a elettricità nelle strade, e il figlio del viceconsole di Sua Maestà Britannica avrebbe insegnato ai livornesi in piazza Magenta un nuovo gioco bislacco con un pallone da prendere a calci.
Si chiamava Angela Manzoni ed era la nonna di Luis Sepulveda: nata forse nel 1886, forse un po’ prima. Non c’è nessuna evidenza che appartenesse al casato di quel Manzoni che ha messo ko generazioni di liceali. Eppure, detto per inciso, l’autore dei “Promessi Sposi” venne a inzuppare i panni al Porto Mediceo prima di andarli a sciacquare in Arno.
Eccoci nei primissimi anni del Novecento, la nostra Angela la ritroviamo nel porto di Buenos Aires, probabilmente Puerto Maduro che in quegli anni non era ancora in tilt. Livorno stava diventando luogo di villeggiatura chic per la borghesia toscana ed era la città dove i Lumière erano venuti a sperimentare il cinematografo ma forse le magnifiche sorti e progressive non erano per tutti: il colera del 1911 che falcidierà le classi popolari di Borgo, di Venezia e del Centro. O forse semplicemente aveva qualche guaio familiare per cui era bene metter l’oceano in mezzo o solo un’avventura da sognare nel Nuovo Mondo.
Eravamo noi i migranti.
Mica che fossero solo lei e i due fratelli: sono gli anni in cui il Departamento General de Inmigración conta 70-80mila migranti in arrivo e più della metà sono italiani. Anche da Livorno: la conferma potete andarla a cercare non nelle scartoffie d’archivio bensì in quel bel dipinto di Raffaello Gambogi nelle sale del museo Fattori (“Emigranti italiani al porto in attesa della partenza”), proprio di quegli anni. Chissà se è solidarietà fra italiani o se è un “consiglio” piuttosto spiccio per toglierseli dai piedi, fatto sta che c’è qualcuno che spiega ai nostri di sparire verso ovest. Ma molto verso ovest: mille chilometri fino a Mendoza, ai piedi delle Ande.
Il mondo alla fine del mondo.
Qui i rampolli labronici di casa Manzoni si rimboccano le maniche e aprono un forno. Ma non è ancora un “mondo alla fine del mondo”, come da titolo di Sepulveda. O perlomeno non lo è abbastanza. È Angela che pianta tutti in asso e fa rotta verso sud, in direzione opposta al viaggio di Che Guevara attraverso il continente sudamericano. Ma: 1) lo fa in sella a un cavallo anziché a una moto Norton 500 M18; 2) è da sola, e non c’è nessun Alberto Granado con lei; 3) siamo quasi mezzo secolo prima. Per capirci: la nonna di Sepulveda è una ragazza a migliaia di chilometri dalla sua Livorno, in una terra che conosce appena e della quale parla un po’ la lingua ma non benissimo, e agli inizi del Novecento in una situazione da pionieri senza tetto né legge si avventura da sola a cavallo a galoppare per giorni verso il nulla che non sa cos’è e neppure dov’è.
Duemila chilometri più a sud. Sì, adesso è abbastanza alla fine del mondo: ma la Patagonia non è la moleskine di Bruce Chatwin. Potrebbe essere il posto dove sparire, diventa il luogo dove si sentirà a casa: folgorati l’un l’altra, lei e capitan Pastene, capo indio mapuche.
Tutto questo non è un romanzo: l’ha raccontato Luis Sepulveda ai suoi amatissimi lettori italiani in un festival a Pistoia qualche anno fa. Non è un romanzo perché non ha fatto in tempo: agli amici toscani l’aveva promesso tante volte di metterlo lui nero su bianco, in forma di diario. Anzi, aveva spiegato di aver già iniziato a «scrivere di queste mie radici italiane» («solo che non so ancora quale titolo avrà»).
«È stato un amore molto forte, – raccontava nel 2005 Sepulveda alla nostra Lara Loreti – li ha accompagnati per tutta la vita: si sono sposati e hanno avuto tre figli, tra cui mia madre. Mi sarebbe piaciuto conoscere mia nonna ma è morta prima che io nascessi».
«Mia nonna era bellissima».
«Di questa mia nonna materna – aveva confidato al Tirreno in una intervista a Ilaria Bonuccelli – non ho un ricordo diretto, ma un ricordo poetico che mi è arrivato attraverso il racconto suggestivo delle mie zie, le sorelle di mia madre, e delle foto che sono un patrimonio di famiglia. Ma è evidente che la mia nonna era una donna bellissima con capelli tendenti al biondo che catturò, forse per questo suo aspetto fragile, mio nonno, un indio della Patagonia, un uomo bruno come me ed alto un metro e novanta».
Non stiamo parlando di curiosità: nell’architettura del mondo letterario di Luis Sepulveda i nonni hanno un ruolo fondamentale, e non soltanto affettivo. Sono anzi un giacimento di storie. Era lui stesso che lo diceva. Come quando ha presentato nel 2015 la sua “Storia di un cane che insegnò a un bambino la fedeltà”: «Questo libro colma un debito che durava da tanti anni. Ho sempre sostenuto che gran parte della mia vocazione di scrittore nasce dal fatto di aver avuto nonni che raccontavano storie, e nel lontano Sud del Cile, in una regione chiamata Araucanía». In questo caso nel Pantheon dell’immaginario c’era il prozio Ignacio Kallfukurá, che al tramonto raccontava ai bambini mapuche storie nella sua lingua, il mapudungun».
Come un libro di Garcia Marquez.
Ma più che dai romanzi di Sepulveda le loro biografie sembrano prese di peso dalle suggestioni di Gabriel Garcia Marquez. Kallfukurá (o Calfucura, a seconda della grafia che si usa) è anche il cognome della madre Irma, infermiera. Lui nasce che la mamma è ancora minorenne: durante una “fuga d’amore” rincorsi dalla polizia perché il padre ha denunciato il “rapimento”. «È strano pensare che il tuo paese sia un hotel e nemmeno 5 stelle», dirà lo scrittore ricordando un destino da esule comunista sfuggito agli sgherri del dittatore cileno Pinochet.
Livorno non c'entra nel ramo paterno dei nonni ma è una storia che vale la pena di raccontare lo stesso. Anche perché Gerardo Sepulveda Tapia («ma tutti lo conoscevano con il nome di battaglia: il compagno Ricardo Blanco») era un tipino mica meno tosto. L'aveva raccontato a Bruno Arpaia ancora il nostro Luis: «Era un anarchico andaluso condannato a morte in Spagna. Nei primi anni del secolo era evaso dal cercare di Almeria e aveva raggiunto le Filippine, di lì era passato in Ecuador e aveva ricominciato daccapo». Nuova brigata anarchica, nuova condanna, nuova evasione: poi il Cile. «A Valparaiso conobbe nonna Susana: colta, borghese, molto cattolica. Credo che nonno Gerardo le abbia perdonato quei "difetti" perché era bellissima e parlava cinque lingue. Io sono praticamente cresciuto con loro e con zio Pepe, il fratello maggiore di mio padre».
Un pezzetto d’amaranto.
Siamo nel mondo alla fine del mondo. Eppure, come racconta Enrico Mannari, studioso livornese, direttore scientifico della Fondazione Memorie Cooperative, una curiosa, inaspettata traccia di amaranto c’è anche qui dove Atlantico e Pacifico si incontrano nella Terra del Fuoco: a Punta Arenas, forse fra gli esseri umani più vicini all’Antardide, davanti all’«isola di Magdalena con i suoi 140 mila piccoli pinguini che sembrano usciti da una favola Disney», in Lautaro Navarro 1087 c’è il bar restaurante Livorno, il nome salta fuori dal fatto che un vecchio proprietario era livornese. Peccato faccia cucina cilena, su Tripadvisor lo sdraiano: avesse puntato sul cacciucchino o sul ponce…
Mauro Zucchelli
Cinema Verdi di Pistoia, 19 gennaio 2004 – Ilide Carmignani (Traduttrice italiana delle opere di Sepúlveda), Luis Sepúlveda e l’assessore Giovanni Capecchi