lunedì 26 ottobre 2009

Olbia


Una magnifica giornata, oggi: di quelle che spesso ci regala la fine dell'estate. Così abbiamo preso la Panda "giallo ottimista" e siamo arrivati fino alla spiaggia del Lido del Sole, appena fuori Olbia, dopo quel ponte sul fiume ancora a senso unico alternato. Per essere quasi a novembre veniva la voglia di fare anche il bagno, tanto si stava bene. Ho scattato le solite foto: il Faro, l'imboccatura del Porto, l'isola di Tavolara sullo sfondo... Foto fatte e rifatte, che però, a seconda dell'ora e della luce, possono apparire diverse e sempre interessanti. D'altra parte, quando si è su un'isola, c'è poco da scegliere: ti devi solo accontentare.


Alle spalle del Lido del Sole, a ovest, le vecchie saline, la foce del Rio Padrongiano (quello del famigerato ponte), la zona industriale (sulla destra) con i cantieri nautici e tutto il resto, il Porto dell'Isola Bianca, con le grandi navi passeggeri pronte a salpare, e la città (sullo sfondo, a sinistra. O... al centro-sinistra, se vi pare).


Questo è un vecchio rimorchiatore, e si chiama "Furioso".
L'ho fotografato stamattina, avvicinandomi a lui con circospezione e chiedendogli preventivamente il permesso perché lipperlì il nome mi aveva un po' intimorito.
Ma quando mi sono avvicinato e ho visto che con la cubia di sinistra abbozzava un sorriso, mi sono fatto coraggio.


Credo che mi abbia anche sussurrato che erano anni che non lo fotografava più nessuno, e che si era rotto il cassero di restare lì, immobile, legato alla banchina, mentre le altre barche gli cabotavano intorno felici.
Mentre lo salutavo per andare a pranzo, mi ha chiesto quando sarei tornato.
"Forse domani - gli ho risposto - se non piove".
Francesco Dotti

lunedì 19 ottobre 2009

La Ville Lumière


"Voglio andare a Parigi! Tutti ci sono stati, almeno una volta, e il prossimo viaggio voglio farlo a Parigi. Mi hai fatto fare metà viaggio di nozze coi tuoi genitori, te lo ricordi?..."
"Ma l'altra metà l'ho passata a letto! Te lo sei forse scordato?", ho replicato, ridacchiando sotto ai baffi, alla gentile signora che vive con me da trentasette anni.
"E chi se lo dimentica? Bel viaggio di nozze che mi hai fatto fare: eri ammalato e con la febbre alta. E sempre a casa dai tuoi genitori! Perciò, ora che ti sei rimesso, mi porti a Parigi."
A questo punto, dovete sapere che ho sempre avuto paura di mettere piede su qualsiasi cosa che volasse; e siccome di solito gli aerei volano, il solo pensiero di dover passare qualche ora sospeso per aria mi terrorizza.
E allora, come ci sarei dovuto arrivare a Parigi: in macchina? in treno? in bicicletta? in canoa? o... a piedi?
Così, per evitarmi l'agonia di simili interrogativi, mio cognato, famoso organizzatore di viaggi altrui, ha risolto il busillis. Lui, che sa dove cercare chi e che cosa, in men che non si dica si è fatto un giretto (in francese "petit tour") su internet e ha procurato i biglietti (rigorosamente aerei), trovato l'albergo e addirittura il momento atmosferico adatto in cui le previsioni davano bel tempo al nord, soprattutto in Francia, con particolare riferimento alla "Ville lumière". Poi, a dado tratto, mi ha spedito una e-mail mettendomi al corrente che le sue trame, e maggiormente quelle della sorella e della di lui moglie, anch'ella aggregata alla gita parigina, erano andate a buon fine. Potevo mai rifiutarmi?


E così, tutti e quattro, siamo partiti. Destinazione: Parigi.
Il 28 settembre alle 12,30 eravamo in aeroporto in attesa del nostro aereo, che puntualmente è arrivato con quasi due ore di ritardo e che, altrettanto puntualmente, cioè due ore dopo, è atterrato a Parigi-Charles De Gaulle mantenendo coerentemente questo ritardo. Ah, la coerenza aerea!

 
 Le Alpi, viste dall'aereo...

Parigi, vista dall'aereo

L'aereo, visto da Parigi...


Giunti fuori dall'aerostazione siamo rimasti quasi mezz'ora per cercare di capire dove fosse la metropolitana, ma alla fine abbiamo preferito chiedere all'ufficio informazioni. Dopo un'altra mezz'oretta di fila, quando siamo arrivati di fronte all'impiegato, in un impeccabile francese abbiamo domandato:
"Excuse mi, nu vulevòn savuàr per allér andò vulevòn allér, comàn se fà?" Sembravamo, con in più le rispettive consorti, Totò e Peppino a Milano.
Perché dovete sapere che a Parigi nessuno - o almeno quelli con i quali abbiamo avuto necessità di stabilire un contatto verbale - parla italiano. Tutti conoscono, e parlano, nient'altro che il francese "veloce":una sorta di slang che capiscono solo loro e di cui solo loro hanno le chiavi.
Per questo motivo tutte le informazioni che trovi in giro sono rigorosamente in francese, con qualche generosa estensione in spagnolo e inglese. Italiano: nisba. E noi, un pomeriggio che abbiamo avuto bisogno di notizie sul metrò, le abbiamo chieste all'unico inglese che passava di lì ma che parlava solo spagnolo. Quando si dice la sfiga...
Individuata a tentoni la stazione del metrò, saputo che avremmo dovuto spendere € 6,40 per quattro biglietti, mio cognato ha preferito prendere un tassì "perché si viaggia più comodi e non rischiamo di perderci nel metrò", che con soli 60 euri ci ha scodellati proprio davanti all'albergo. Alle cinque del pomeriggio eravamo in camera (per la verità un po' piccola), valigie comprese. A Parigi! Vuoi mettere?
Siccome in passato ci è capitata qualche sorpresa in alcuni alberghi dove ci siamo fermati a dormire, la prima cosa che abbiamo fatto è stata quella di disfare il letto per vedere se le lenzuola fossero pulite. Ma, ahimè, dopo un attento esame, vi abbiamo individuato una peluria sospetta proprio in fondo, all'altezza dei piedi. Così, piuttosto contrariato per la scoperta pilifera, mi sono recato immediatamente alla respectiòn.... rescipsiòn... riscepsiòn..., insomma in portineria, dove ho fatto presente l'accaduto.
Il portiere si è subito scusato e mi ha dato nuove lenzuola pulite, aggiungendo, mentre mi allontanavo soddisfatto, qualcosa che in seguito ho creduto di poter tradurre, più o meno: "Ma per 140 euri a notte, cosa ci volevi trovare: la parrucca di Luigi XIV?" Impudente!
Dopo aver rifatto il letto, ci siamo rinfrescati e abbiamo provato a sistemare la roba nell'armadio, dopo aver prima spostato il comodino perché le ante non si aprivano. Ma per spostare il comodino abbiamo dovuto spostare il letto, l'altro comodino e anche il frigobar, mettendo parte del mobilio fuori dalla camera, nel corridoio, vicino all'ascensore. Che non abbiamo spostato perché una cameriera ai piani, in filippino stretto misto a napoletano, ci ha detto che non era possibile perché lo avevano revisionato da poco ed era ancora in garanzia.
Allora abbiamo ributtato tutto in camera e rimesso gli indumenti nelle valigie, convenendo che sarebbe stato più pratico prendere ciò che ci serviva al momento di uscire.
Meno male che in camera avevamo il televisore (non so come ce lo abbiano fatto stare...), che però prendeva un sacco di canali francesi e solo Rai Uno che faceva vedere sempre Antonella Clerici, Vincenzo Salemme, Carlo Conti e, in seconda serata, Porta a Porta.
Terminati i traslochi, siamo scesi in camera dai cognati e ci siamo scaraventati per le vie di Parigi in cerca di un posto dove cenare, anche se era presto. Perché oltre al pacchettino con 15 salatini offerti gentilmente dalla Compagnia aerea e una frugalissima colazione ingoiata la mattina della partenza (per evitare i possibili rigurgiti da turbolenza avionica), praticamente eravamo digiuni dalla sera prima. Abbiamo subito individuato una bulange... bolaung... bulunger..., insomma una panetteria, che esponeva anche simpatiche pastine dall'indecifrabile e misterioso contenuto, optando alla fine per la classica bagh... bough... bagutt..., insomma uno di quei panini lunghi lunghi e stretti stretti che i francesi si portano sempre in giro sotto le ascelle.
Dopo tre quarti d'ora di trattative e di traduzioni avventurose con la panettiera, portando ad esempio anche la ghigliottina, siamo riusciti a farceli tagliare in quattro pezzi e siamo usciti per cercare una sciarcut... schartuch... chartuch..., insomma una salumeria, per riempirli con qualcosa di appetibile. L'abbiamo finita in un supermercato (lo abbiamo riconosciuto dalle insegne e dalla gente in fila alle casse), dove mio cognato insisteva per andarci in tassì perché “saremmo arrivati prima e con il pane sempre fresco” e, senza parlare con nessuno per evitare di passare per i soliti italiani, abbiamo preso dei salumi già confezionati, una bustina di sottilette e due bottigliette da mezzo litro di acqua frizzante Perrier (quella che se fai un rutto ti sentono anche in Olanda) e siamo usciti per strada. 
Che bello, girar per Paris avec les panins in man cercand un post dov manger!

Le stanze da letto dei closchiàr... closcià... calosciàr... insomma, dei barboni

Ai giardinetti di fronte all'albergo abbiamo trovato una panchina libera (le altre erano tutte occupate dai closciàr... clochiàr... colsciàrd..., insomma dai barboni di Parigi, che bevevano birra e fumavano Gaulouises), ci siamo imbottiti i panini col salume e le sottilfette di formaggio, bevendo avide sorsate di Perrier e ruttando felici come pasque. Finita la cena, siamo entrati in un bar sempre nei pressi dell'albergo per prenderci il caffè (anche qui mio cognato ci voleva andare in tassì), e per la modica somma di € 1,50 ci hanno rifilato quattro sbobbe nere e bollenti che sembravano fatte con le pigne secche. Allora, per confondere il sapore sbobbato-pignato-secco, li abbiamo chiesti macchiati (maculé au lait), e per la irrisoria cifra di euri 1,00 in aggiunta ce li hanno maculé au lait.

Lo zucchero, infine, te lo devi portare da casa: te ne danno una bustina sottile come una sigaretta e se ne chiedi un'altra chiamano la Polizia.

 La Tour Eiffel, vista da Parigi   

L'albergo era abbastanza vicino alla Torre Eiffel, lo avevamo visto sulla cartina, e si vedeva pure, la Torre, illuminata e imponente, stagliarsi sullo sfondo della Avenue De Suffren.

"Che dite: proviamo ad arrivarci a piedi? Almeno digeriamo i panini e soprattutto il caffè. Non sembra molto lontana...", ho suggerito.
"Ma non sarebbe meglio prendere un tassì?" continuava a insistere mio cognato, che in questi ultimi anni è talmente ingrassato che fai prima a saltarlo che a giragli intorno.

Ancora la Tour Eiffel, questa volta vista dal Trocadero (credo...)

E così, dopo averlo a fatica convinto ad andarci a piedi, ci siamo incamminati lungo un marciapiede alberato, largo come la metà di Olbia (ma dove si cammina meglio il doppio), in mezzo a due strade enormi come la superstrada per Sassari, determinati a raggiungere la Torre a tutti i costi.


Sì, sì, è proprio vista dalla terrazza del Trocadero!! (o giù di lì...)

Dopo un'ora di cammino, stanchi morti, coi piedi in fiamme e la Torre sempre visibile tuttavia terribilmente lontana, ci siamo resi conto del perché avessero chiamato quella strada "Avenue De Suffren"
Che fosse, quello, il "Viale delle Sofferenze?", ho pensato. 
"Ve lo avevo detto, io, che era meglio chiamare un tassì!...", continuava a ripetere mon cognée (mio cognato, ndr.), scattandomi subito una foto dei piedi per dimostrarmi che la sua idea del tassì in fondo non era poi tanto malvagia...


I miei piedi, dopo la camminata...


A questo punto, siccome vi chiederete chi sarà mai questo "Lubumba" che firma alcune delle immagini che vedrete nel post, è doveroso aprire una parentesi di tipo... fotografico.
Dovete sapere che per la ghiotta occasione di questo inusitato viaggio nella terra dei Galli io mi ero portato dietro tutto il corredo dagherrotipico necessario, dal quale non mi separo mai, con l'intenzione di fare non meno di millanta scatti con le mie fototelecamere multifunzione e multizoom a raggi gamma di ultimissima generazione. Avevo lasciato a casa solo la camera oscura perché mi avevano detto che sull'aereo non si poteva portare. Niente cose oscure sugli aerei. I voli richiedono la max trasparenza.
Mentre invece mio cognato (alias Gion Niceforo Niepce, per gli amici “Tassì”, o anche “Lubumba” - che razza di nome...), per fare il ganzo, era venuto in gita con un videotelefonino a pile trovato nella busta delle patatine fritte acquistate allo zoo di Gonnosfanadiga la domenica precedente, e una Nikon a legna, con tendina in ghisa e camera d'aria di bicicletta, ereditata da un lontano prozio che fotografava i mufloni in Barbagia, di domenica, quando c'era la nebbia.
Ebbene, non ci credereste mai, ma con quell'attrezzatura similfotografica di scarsissimo pregio ha fatto delle foto così belle, ma così belle, che quando ho visto le mie volevo gettarmi nella Senna dal Ponte di Iena per la rabbia, la vergogna, ma soprattutto per l’invidia.
Perciò, d'ora in poi, tutte le foto riportanti la firma "Lubumba" (che razza di nome...) sono le sue. Gliele metto solo perché mi paga profumatamente e perché, addirittura a Parigi, mi ha voluto a tutti i costi scattare una foto per rinnovare la Carta d'Identità. Poi, quando me la danno, ve la faccio vedere.

Eccola!! L'ho trovata, finalmente!  


Tutto ciò chiarito, è d'uopo tornare al nostro bel viaggio riprendendolo dal "Viale delle Sofferenze".

Finalmente la Torre, davanti a noi. Anzi, sopra. Bellissima, imponente, maestosa, incredibile: sembrava fatta col fil di ferro all'uncinetto.
Eh, sì! Una visita alla Torre l'avrei fatta volentieri, magari salendo fino in cima. E anche a piedi, pur di risparmiare qualche euro. La serata era calma e limpida, e il sole era appena tramontato. E lo spettacolo offerto, ne ero sicuro, sarebbe valso la fila davanti alla biglietteria, dove un serpentone umano multicolore aspettava per fare il biglietto.
Intanto mio cognato stava già chiedendo in giro se sulla Torre si poteva salire anche in tassì, "perché un suo amico gli aveva detto che a Parigi è un'usanza", ma si è accorto che lo guardavano male e ha subito cambiato discorso. Così ci siamo accontentati di guardarla dal basso, la Tour Eiffel. Ché è bella lo stesso.

La Tour Eiffel, vista da sotto

Dice "ma come, vai a Parigi una volta nella vita e non sali sulla Torre Eiffel?! Ma allora sei proprio scemo! Non lo sai che da lassù si vede tutta Parigi?"

Verissimo. Infatti oggi, se ripenso alle foto perdute, un po' mi sono pentito. Ma la gente in attesa era davvero troppa e noi eravamo stanchi per il viaggio, per i panini, ma soprattutto per il caffè di ghiande e lupini che da un po' aveva iniziato a latrare in modo assai molesto, con degli insidiosi premiti tra il colon discendente e la mutanda. Non so se mi spiego...
Così ci siamo accontentati di qualche scatto nei dintorni, e poi, attraversato il Pont d'Iena, ci siamo diretti verso il Trocadero, con le sue fontane illuminate, il parco, e il Palais de Chaillot, costruito per l'Esposizione Universale, che ospita il Museo dell'Uomo, il Museo della Marina, quello dei Monumenti francesi e quello del Cinema.
L'attraversamento stradale, a Paris, l'est molt périlleux. Le strade sono larghissime, e devi rispettare rigorosamente i semafori truccati facendo attenzione a quello che guardi. Nel senso che ce ne sono diversi, che occhieggiano, a tutte le altezze e di tutte le dimensioni, e che indicano sì il verde, ma devi capire a chi questo verde si riferisce: se ai pedoni o ai veicoli. Io, in quei giorni di permanenza parigina, non l'ho mai capito, ma se non fosse stato per la mia invidiabile agilità da sessantaventenne sarei finito più di una volta sul cofano di qualche macchina. Cosa vuoi, vivendo da molti anni in Sardegna e non essendo quasi mai uscito dall'isola, se togliamo il casino dei mesi estivi con l'arrivo dei turisti, da noi il traffico e gli ingorghi li trovi solo alle casse di Città Mercato.


Les rues de Paris

 L'Avenue De Breteuil (sullo sfondo, la cupola dorata de l'Eglise du Dôme)

A Parigi no. A Parigi, anche se sei partito coi semafori verdi, non significa che restino sempreverdi e che tu riesca ad attraversare l'immenso stradone che hai davanti tutto d'un fiato (d'emblée), e sempre con lo stesso verde. Talvolta, les sèmaphores parisiennes, per un attimo si colorano addirittura anche di azzurro oltremare o cobalto chiaro (per questo si dice "attraversér d'emblée"), per imbrogliarti e vedere se sei attento. Così, prima di arrivare dall'altra parte, devi fermarti su delle sottilissime lingue di marciapiede al centro della carreggiata, in attesa del prossimo verde interrogando i Tarocchi. Spesso questi isolotti, stretti stretti e corti corti, sono sovraffollati da attraversatori interrotti, e non di rado capita di vederli ingaggiare tra loro furibonde tenzoni all'ultimo sangue pur di restare al sicuro al centro dell’isolotto. Come si dice da queste parti:“C'est la vie”... (ovvero: "C'è la strada"... boh?!)

Terminata la visita parisienne e fattosi tardi, pian pianino siamo rientrati verso l'albergo: dovevamo anche cenare, e questa volta i panini non ci sarebbero bastati. Volevamo cenare come dei veri signori. Eccheccazz...
Perciò, dopo aver imbavagliato il cognato perché non ci richiedesse di prendere un tassì, e approfittando del fatto che l'effetto-caffè au glandes sembrava svanito, con le mutande al sicuro ci siamo incamminati alla volta di Montparnasse.
Dove, in un bar, ci siamo abboffati come maiali con tre cappuccini annacquati (sormontati da una cupola di schiuma, alta quanto la tazza e spolverata di cacao (praticamente, una tazza di… schiuma colorata), e un thè au lemòn. Il tutto, per la modica cifra di euri 17,50, servizio compreso. Lo zucchero, lo abbiamo avuto da un pusher all’angolo del bar.
Quando si dice cosa significa mangiare bene!!
Siamo rientrati in albergo, stanchi ma felici, e ci siamo dati appuntamento per il mattino seguente di buon'ora per continuare l'escursione. Abbiamo trovato l'ascenseur en panne, e ci siamo dovuti scapicollare (scapicollér) a piedi quattro-piani-quattro di scale da infarto, più ripidi di quelli della Torre di Pisa. Giunti in camera, dopo aver ripreso fiato e rifatti i consueti traslochi degli arredi per raggiungere il letto, finalmente ci siamo infilati tra le lenzuola. Questa volta sui nostri peli. La mia signora, che soffre d'insonnia dall'età di due anni, per facilitare l'arrivo di Morfeo ha acceso il televisore. Così, dopo appena tre minuti di Quark in cui si parlava di "Autocompiacimento narcisistico-adolescenziale del beccafico dal collare nel contesto della rinascita della DC, da De Gasperi a Cary Grant", ha perso conoscenza, mantenendo solo le funzioni respiratorie, e ha cominciato a russare che pareva la motosega di uno spaccalegna dell'Ontario in una foresta di sequoie, durante un uragano. Perciò mi sono dovuto alzare io per spegnere il maledetto elettrodomestico catodico, e per farlo ho dovuto spostare il comodino, la poltroncina, le valigie, il frigobar, la... Insomma, avete capito benissimo.
La mattina dopo ci siamo svegliati abbastanza prestino, io molto prima della mia gentile consorte perché dovevo... deporre.
Di solito depongo sempre con molta difficoltà, ma quando affronto un viaggio e cambio abitudini e alimentazione per farlo mi ci vuole un esorcista. Infatti, dopo tre ore di posizione del "loto che aspetta il caco", respirazione "a mantice", e ondeggiamenti addominali vari, e cioè verso le 9, ero ancora al punto di partenza. Cioè al loto che aspetta il caco.
"La farai quando torniamo", mi ha detto colei che da quasi quarant'anni con me condivide gioie, dolori e… deposizioni. "Ora dobbiamo muoverci, perché Gion Niceforo-Lubumba  ci aspetta, e se arriviamo in ritardo lo sai che piglia un tassì! Poi si fotografa tutto quello che trova e a te non lascia nulla. Sbrigati!"
Non avendo deciso la sera prima quale itinerario seguire (io ero ancora talmente stanco dalla scalata alla camera, che al solo pensiero che di lì a poche ore avrei dovuto riprendere il cammino verso chissà quali oscure mète mi venivano le convulsioni), ne fu proposto uno a caso: i Grandi Magazzini Lafayette nel Bulb... Boulov... Biulv... insomma nell'amplissimo e lunghissimo Viale Haussmann, dall'altra parte della Senna, perché la gentile compagna la cui vita è da anni saldamente legata a quella di mon cogné doveva fare acquisti.
"Ma come, veniamo a Parigi una volta nella vita e dobbiamo andare a Città Mercato?! Mi dispiace, ma io non me la sento. E se poi devo andare in bagno? Perché, non so se mi avete guardato bene in faccia - ero quasi verde-Hulk quando gli si strappano i vestiti -, ma sono due giorni che non riesco a... ci siamo capiti!"
In effetti io volevo restare nei pressi dell'albergo, perché, in caso di necessità, avrei saputo dove andare.
Così ci siamo salutati con le lacrime agli occhi e sono rimasto lì a guardarli, sul marciapiede. Mentre aspettavano un tassì. Dopo una breve occhiata alla piantina della città, ho visto che abbastanza vicino - si fa per dire, perché a Parigi tutto quello che sembra vicino in realtà è lontanissimo - c'era l'Hotel Des Invalides.
"Proprio quello che fa per me in questo momento!" ho pensato.
E allora, pensando pensando, col foglio di ricovero "urgente" in mano, mi sono incamminato verso la lucentissima cupola dorata che sbucava dagli alberi, a circa 107 metri di altezza, in fondo all'Avenue De Breteuil.

(come al solito, continua...)