lunedì 2 luglio 2012

Satira e umorismo nero


Nella satira, fa ridere tutto ciò che è trasgressivo – o che viene considerato tale – e che, più in generale, della realtà è paradosso, metafora. 
Ma anche ciò che da essi si diparte, spesso per terminare nel sarcasmo e nel cinismo, diventando, a torto o a ragione, sinonimo di cattiveria e di sprezzante e crudele sincerità.
Così l’arma dell’umorismo nero, da noi poco in voga (davvero siamo così ipocriti?), che utilizza le deformità e le disgrazie altrui – o dei protagonisti delle sue storie – non per semplice dileggio, ma, al contrario, per farne l’innesco capace di far esplodere le situazioni narrate. 
Esiste, infatti, un atavico rifiuto per la raffigurazione della disgrazia, della malattia, della morte, e vige una innata tendenza a rimuovere tutto ciò, facendo, nel contempo, ampi scongiuri.
Per questo accade, qui da noi, che la descrizione della decadenza fisica sia solitamente riservata a deridere i potenti. Cosicché i nostri governanti possono vantare una collezione di vignette che li ritraggono gobbi, sessualmente poco dotati, mostruosamente fisicamente infelici. 
Ma esiste anche il paradossale quotidiano che descrive la vita e i vizi privati della gente comune, al quale solo i più duri sopravvivono. 
Come per esempio il chirurgo, rivolto al soldato che ha perduto una gamba in battaglia: "Se guardi il lato positivo, potrai sempre risparmiare qualcosa sull'acquisto delle scarpe..."
Oppure quell'altra della mamma che, alla figlia che le chiede perché mai abbiano deciso di festeggiare il Natale con un mese di anticipo, candidamente risponde:
"Ti sei dimenticata che hai la leucemia e che a dicembre è difficile che ci arrivi?"
O l'altra, vecchissima, ma sempre buona: 
- "Babbo, perché la mamma è così pallida?"
- "Zitto, Pierino, e scava!"
Insomma, ridere delle menomazioni fisiche o della stessa morte, in fondo serve a renderle meno drammatiche e più accettabili. 
Ancor più se si tratta di quelle altrui... 

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