Eh sì, quest’anno sta facendo proprio caldo! E così, caldo per caldo, sapete cosa ho fatto l’altro giorno? No?... Bene, allora ve lo dico io. Sono sceso nel parcheggio condominiale, dove i tolleranti condòmini mi permettono di parcheggiare il mio elirotore bifase a motori alternati, e dopo aver fatto il solito pieno prelevando con circo e poi spezione la benzina dalle auto dei vicini, l'ho messo in moto e sono partito alla vòlta dell'oasi di Hamed-Al-Kahalifa dove un vecchio amico, compagno d'arme durante un colpo di stato al quale avevamo partecipato come agenti mercenari indipendenti nel lontano 1963, sapevo che aveva preso dimora. Dei particolari bellici, ahimè, non posso dirvi nulla. Perché, essendo i fatti recenti, tutto è ancora coperto dal segreto militare. Perciò non chiedetemi altro e accontentatevi del poco che vi dirò...
Decollato, ordunque, dall'eliparcheggio condominiale, dopo circa tre ore di volo ed evitati più per miracolo che per perizia un paio di missili siriani sfuggiti al controllo radar di Poggio Topone (PGT), sono atterrato nel cortile di casa del fedele Yussef Al Gharbiya (questo il nome dell'amico), che in quel momento a tutto avrebbe pensato meno che a questa improvvisata.
Decollato, ordunque, dall'eliparcheggio condominiale, dopo circa tre ore di volo ed evitati più per miracolo che per perizia un paio di missili siriani sfuggiti al controllo radar di Poggio Topone (PGT), sono atterrato nel cortile di casa del fedele Yussef Al Gharbiya (questo il nome dell'amico), che in quel momento a tutto avrebbe pensato meno che a questa improvvisata.
Caro, prezioso Yussef, appena mi ha visto non stava più nel turbante dalla felicità! Salti, canti, balli, fuochi fatui, damigiane di spremuta di canna da zucchero e altre canne ancora per festeggiare l'evento, e poi siamo entrati in casa dove mi ha voluto subito presentare le sue nove mogli e le tredici suocere.
Mi ha raccontato che dopo essersi congedato dal controspionaggio, aveva messo su una rappresentanza, prima di palme da cocco, poi da datteri e infine anche da olio, ma gli si sono rovinati, nell’ordine, prima le drupe, poi i pericarpi e infine i dendè. Come se non bastasse, ha proseguito il racconto Yussef, alcuni anni fa gli sono morte tre mogli e una è scappata con un rappresentante di kebab dell'oasi vicina, ma siccome le suocere sono ancora in gamba e cucinano bene, ha deciso di tenersele. Infatti, non appena mi hanno visto, mogli e suocere erano corse già intorno ai fornelli: chi cuoceva il pane, chi il dampokhtak (riso, fave secche, cipolla e curcuma), chi il tacchino al cumino col peperoncino abissino... insomma, ci sarebbe stato da mangiare per un mese intero!
«Guarda, Yussef, che non mi trattengo molto», gli ho spiegato nel mio arabo approssimativo misto a curdo dell'est, un po' di armeno e una 'nticchia di tosco-ispano-aramaico. «Mia moglie non sa che sono partito, e non vorrei che stesse in pensiero». Ma Yussef non voleva sentir ragioni, e abbracciandomi stretto al cuore mi ha fatto capire che non mi avrebbe assolutamente fatto partire se non prima di avermi mostrato alcune bellezze della sua terra e qualche bombardamento qua e là. Vedendo la mia smorfia di dolore mentre mi abbracciava, sì è accorto del male alla spalla che da qualche tempo mi affligge e con la preoccupazione dipinta sul volto si è subito precipitato al telefono per prenotarmi una seduta alle terme di Qabr Bin Alepp, dove i famosi fanghi del vicino lago salato, mi ha spiegato, avrebbero fatto resuscitare anche Lazzaro se qualcun altro non ci avesse già pensato tempo fa. Dovete sapere che da quelle parti l'ospite è sacro, ma un amico lo è ancor di più, e poi eravamo stati lontani per troppo tempo e avevamo un sacco di cose da raccontarci. Perciò non poteva assolutamente lasciarmi partire se non dopo che fossi del tutto guarito, mi ha detto quasi con le lacrime agli occhi. A tavola, oltre ai coperti e alle succulente e gustosissime pietanze, abbiamo rispolverato i vecchi ricordi di guerra, di quando ci eravamo infiltrati nel Fronte di Liberazione Nazionale e di quando, arrestati e confinati nei campi di prigionia, una notte riuscimmo a fuggire attraverso il deserto, in monopattino, travestiti da zampognari abruzzesi. Posso solo dirvi che per riuscire in quella che da tutti i compagni di prigionia era considerata un’impresa impossibile, dovemmo ricorrere a un astuto stratagemma.
Siccome avevamo avuto una “soffiata” sulla parola d’ordine, che era: “Lorenzo s’Arrabbia”, e sulla controparola:“Sette pilastri e un paracarro, guarda a sinistra se vedi un ramarro”, a ogni posto di blocco dei ribelli ripetevamo la frase convenzionale stabilita, cioè la controparola, e questo fatto ci salvò la vita e ci ridette la libertà. Anche se, essendo piuttosto lunga e difficile da ricordare, non nascondo che qualche problema la controparola ce lo diede. Soprattutto sul numero dei pilastri e sul tipo di rettile...
Così, Yussef ed io, siamo rimasti per alcune ore a parlare amabilmente dei bei momenti trascorsi insieme; e tutto questo tempo senza che nessuna delle nove mogli, ma soprattutto delle tredici suocere, ci interrompesse. Non mica come da noi, che non stanno mai zitte perché sanno tutto loro... Finito di pranzare, siamo usciti nel fresco liwan e ci siamo accoccolati comodamente sui grandi cuscini color amaranto bordato di giallo senape fumando la tradizionale pipa ad acqua e aspettando il caffè. Bevuto il caffè, scuro e forte com’è usanza di quei luoghi, Yussef ha voluto che lo seguissi nell'orto per vedere se c'era Maramao. Era da giorni che lo cercava, e temeva che fosse morto... invece, cerca che ti cerca, al suo posto abbiamo trovato solo papaveri e papere.
«Ma tu ce l'hai una casetta in Canadà?», mi ha domandato a un certo punto Yussef.
«No, amico mio. Io vivo in Sardegna e lì mi trovo benissimo», gli ho risposto. «Ma... scusa, che c'entra?», ho soggiunto subito dopo ripensando alla bizzarra domanda.
«No... Niente. Dicevo così per dire...», mi ha risposto evasivo. «Perché se non hai né vasche, né pesciolini, né tanti fiori di lillà, che te ne fai di una casetta in Canadà? Però... se avessi almeno un cammello... Ce l'hai un cammello? Hai mai provato a farlo passare per la cruna di un ago?», ha insistito, quasi volendo evidenziare il paradosso epigenetico in quel momento per me incomprensibile soprattutto dal punto di vista fenomenologico-religioso al quale forse Yussef alludeva.
«Ho avuto un cane e due gatti, tutti con le pulci, mio caro Yussef, ma una notte me li hanno rubati e non li ho più rivisti. Quelle carogne, dio li fulmini, mi hanno lasciato, in un barattolino, solo le pulci!», gli ho risposto con rabbia ripensando ai fastidiosi parassiti.
«Perché allora non ti pigli il mio cammello? Te lo do volentieri, è vaccinato e non ha neppure una pulce. Eppoi, io ne ho due!», mi ha detto a quel punto Yussef raggiante.
«E come me lo porto via? Hai visto con cosa sono venuto?», ho replicato.
«Lasci qui quel “coso” e te ne vai col cammello, per di più inosservato. Semplice. Poi consuma anche poco e l'ho fatto revisionare il mese scorso!»
«Senti un po’ Yussef, io con te ci sto bene e ti ho rivisto volentieri, ma il cammello resta dov’è! Non ti offendere, ma cerca di capirmi! Hai presente che significa andare da qui in Sardegna seduto sulle gobbe di un cammello?»
Gli ho risposto quasi stizzito, vergognandomi però subito dopo per il tono brusco delle mie parole. Yussef ha annuito, in silenzio, e non ha più fiatato fino a quando siamo arrivati vicini al cammello.
Mi ha raccontato che dopo essersi congedato dal controspionaggio, aveva messo su una rappresentanza, prima di palme da cocco, poi da datteri e infine anche da olio, ma gli si sono rovinati, nell’ordine, prima le drupe, poi i pericarpi e infine i dendè. Come se non bastasse, ha proseguito il racconto Yussef, alcuni anni fa gli sono morte tre mogli e una è scappata con un rappresentante di kebab dell'oasi vicina, ma siccome le suocere sono ancora in gamba e cucinano bene, ha deciso di tenersele. Infatti, non appena mi hanno visto, mogli e suocere erano corse già intorno ai fornelli: chi cuoceva il pane, chi il dampokhtak (riso, fave secche, cipolla e curcuma), chi il tacchino al cumino col peperoncino abissino... insomma, ci sarebbe stato da mangiare per un mese intero!
«Guarda, Yussef, che non mi trattengo molto», gli ho spiegato nel mio arabo approssimativo misto a curdo dell'est, un po' di armeno e una 'nticchia di tosco-ispano-aramaico. «Mia moglie non sa che sono partito, e non vorrei che stesse in pensiero». Ma Yussef non voleva sentir ragioni, e abbracciandomi stretto al cuore mi ha fatto capire che non mi avrebbe assolutamente fatto partire se non prima di avermi mostrato alcune bellezze della sua terra e qualche bombardamento qua e là. Vedendo la mia smorfia di dolore mentre mi abbracciava, sì è accorto del male alla spalla che da qualche tempo mi affligge e con la preoccupazione dipinta sul volto si è subito precipitato al telefono per prenotarmi una seduta alle terme di Qabr Bin Alepp, dove i famosi fanghi del vicino lago salato, mi ha spiegato, avrebbero fatto resuscitare anche Lazzaro se qualcun altro non ci avesse già pensato tempo fa. Dovete sapere che da quelle parti l'ospite è sacro, ma un amico lo è ancor di più, e poi eravamo stati lontani per troppo tempo e avevamo un sacco di cose da raccontarci. Perciò non poteva assolutamente lasciarmi partire se non dopo che fossi del tutto guarito, mi ha detto quasi con le lacrime agli occhi. A tavola, oltre ai coperti e alle succulente e gustosissime pietanze, abbiamo rispolverato i vecchi ricordi di guerra, di quando ci eravamo infiltrati nel Fronte di Liberazione Nazionale e di quando, arrestati e confinati nei campi di prigionia, una notte riuscimmo a fuggire attraverso il deserto, in monopattino, travestiti da zampognari abruzzesi. Posso solo dirvi che per riuscire in quella che da tutti i compagni di prigionia era considerata un’impresa impossibile, dovemmo ricorrere a un astuto stratagemma.
Siccome avevamo avuto una “soffiata” sulla parola d’ordine, che era: “Lorenzo s’Arrabbia”, e sulla controparola:“Sette pilastri e un paracarro, guarda a sinistra se vedi un ramarro”, a ogni posto di blocco dei ribelli ripetevamo la frase convenzionale stabilita, cioè la controparola, e questo fatto ci salvò la vita e ci ridette la libertà. Anche se, essendo piuttosto lunga e difficile da ricordare, non nascondo che qualche problema la controparola ce lo diede. Soprattutto sul numero dei pilastri e sul tipo di rettile...
Così, Yussef ed io, siamo rimasti per alcune ore a parlare amabilmente dei bei momenti trascorsi insieme; e tutto questo tempo senza che nessuna delle nove mogli, ma soprattutto delle tredici suocere, ci interrompesse. Non mica come da noi, che non stanno mai zitte perché sanno tutto loro... Finito di pranzare, siamo usciti nel fresco liwan e ci siamo accoccolati comodamente sui grandi cuscini color amaranto bordato di giallo senape fumando la tradizionale pipa ad acqua e aspettando il caffè. Bevuto il caffè, scuro e forte com’è usanza di quei luoghi, Yussef ha voluto che lo seguissi nell'orto per vedere se c'era Maramao. Era da giorni che lo cercava, e temeva che fosse morto... invece, cerca che ti cerca, al suo posto abbiamo trovato solo papaveri e papere.
«Ma tu ce l'hai una casetta in Canadà?», mi ha domandato a un certo punto Yussef.
«No, amico mio. Io vivo in Sardegna e lì mi trovo benissimo», gli ho risposto. «Ma... scusa, che c'entra?», ho soggiunto subito dopo ripensando alla bizzarra domanda.
«No... Niente. Dicevo così per dire...», mi ha risposto evasivo. «Perché se non hai né vasche, né pesciolini, né tanti fiori di lillà, che te ne fai di una casetta in Canadà? Però... se avessi almeno un cammello... Ce l'hai un cammello? Hai mai provato a farlo passare per la cruna di un ago?», ha insistito, quasi volendo evidenziare il paradosso epigenetico in quel momento per me incomprensibile soprattutto dal punto di vista fenomenologico-religioso al quale forse Yussef alludeva.
«Ho avuto un cane e due gatti, tutti con le pulci, mio caro Yussef, ma una notte me li hanno rubati e non li ho più rivisti. Quelle carogne, dio li fulmini, mi hanno lasciato, in un barattolino, solo le pulci!», gli ho risposto con rabbia ripensando ai fastidiosi parassiti.
«Perché allora non ti pigli il mio cammello? Te lo do volentieri, è vaccinato e non ha neppure una pulce. Eppoi, io ne ho due!», mi ha detto a quel punto Yussef raggiante.
«E come me lo porto via? Hai visto con cosa sono venuto?», ho replicato.
«Lasci qui quel “coso” e te ne vai col cammello, per di più inosservato. Semplice. Poi consuma anche poco e l'ho fatto revisionare il mese scorso!»
«Senti un po’ Yussef, io con te ci sto bene e ti ho rivisto volentieri, ma il cammello resta dov’è! Non ti offendere, ma cerca di capirmi! Hai presente che significa andare da qui in Sardegna seduto sulle gobbe di un cammello?»
Gli ho risposto quasi stizzito, vergognandomi però subito dopo per il tono brusco delle mie parole. Yussef ha annuito, in silenzio, e non ha più fiatato fino a quando siamo arrivati vicini al cammello.
Lo aveva chiamato Kámêlon, un nome di fantasia, il primo che gli era venuto in mente perché gli ricordava gli studi classici di quando era ragazzo. In effetti, Kámêlon era un bel cammello: alto e disinvolto, dal pelo folto, e anche se era dinoccolato e sciolto non si muoveva mai da dove Yussef lo parcheggiava.
Mi aveva spiegato che un bombardamento gli aveva completamente distrutto la stalla, e che Kámêlon si era salvato per un puro colpo di fortuna perché in quel momento era fuori, nel campo, a pascolare. E così da quel giorno, spaventato, restava sempre dove Yussef lo metteva. Mi sono avvicinato, e anche se un po’ m’intimoriva la sua bocca spalancata con quei dentacci gialli e sporchi, l’ho accarezzato e lui si è lasciato accarezzare docilmente. “Ciao, Kámêlon!”, gli ho sussurrato, cercando invano di avvicinarmi all’orecchio per me troppo in alto.
Come se avesse capito, con un leggero movimento della testa si è abbassato per facilitarmi il compito, e contemporaneamente mi ha alitato in faccia un odore nauseabondo modello sindrome del fecaloma fetido, disturbo irreversibile che affligge meteorici e costipati, soprattutto se deceduti da una settimana e caduti dentro una fogna.
Lasciato quindi il cammello a puzzare da solo e facendosi sera, siamo tornati verso casa per la cena, dove ci attendevano, già in affanno intorno ai fornelli, le nove mogli e le tredici suocere. Finito di cenare, siamo usciti in cortile a vedere i suggestivi bombardamenti notturni in atto nella vicina città di Al-Amhal-Qsura e, mentre eravamo fissi con gli occhi al cielo, ci è piovuto addosso un missile proveniente dall’ufficio postale di Kask-Wasit-Abel, il paese immediatamente vicino, dove c’è anche un ospedale da campo senz'acqua. Passato lo spavento iniziale per lo scampato pericolo, quando ci siamo accorti che il missile non era esplosivo ma che apparteneva a un tipo di posta celere in uso da quelle parti, Yussef, più pratico di me perché la dichiarazione dei redditi gli viene sempre recapitata con quel sistema, ha aperto lo sportellino sul fianco e ne ha estratta una lettera. «Dev’essere tua moglie che ti scrive». Mi ha detto, visibilmente preoccupato porgendomi la busta a me intestata. Così, l’ho aperta e ho letto ad alta voce in modo tale che anche Yussef potesse sentire: «Mio adorato, so che dove sei ti trovi bene e sei in buona compagnia, ma devi rientrare immediatamente a casa. Pare che qualcuno si sia lamentato per le continue sparizioni della benzina dai serbatoi delle macchine nel parcheggio condominiale, e così l’amministratore ha convocato una riunione urgente di tutti i condòmini. Altrimenti dice che avvisa i Carabinieri e poi sono cazzi. Si è molto raccomandato di non mancare! Mi manchi. Torna presto. Ti amo, sempre tua, Cunegonda».
Dovevo partire immediatamente. E anche se era notte fonda e dovevamo ancora giocare a luna monda, mi attendeva Cunegonda. Yussef ha molto insistito perché partissi la mattina seguente, all’alba, ma io gli ho fatto capire che di notte, in volo, sarei stato più al sicuro. Avrei volato a bassa quota, gli ho spiegato, per non essere individuato dai radar, e inoltre, non avendo adeguate contromisure elettroniche e volando a vista, avrei avuto il tempo di accorgermi dei temibilissimi SAM terra-aria diretti su di me ed evitarli. Yussef, con le lacrime agli occhi dal dolore per vedermi partire, ed io per il troppo peperoncino del pasticcio di melanzane e montone in fricassea ancora da digerire, ci siamo abbracciati giurando solennemente che, condòmini e Carabinieri permettendo, ci saremmo rivisti quanto prima.
«E… il cammello? Che fai, allora davvero non te lo prendi?», è tornato alla carica il buon Yussef.
Kámêlon, che era poco distante e che sembrava quasi essersi accorto della mia partenza, aveva lanciato untrill…, un gagnol…, uno stranazz…, insomma, mi aveva cammellato qualcosa in dialetto che ho decifrato come “portami secoteco e non ti pentirai!”. Così ho preso il cammello e, invece di farlo passare per la cruna di un ago, l’ho infilato a forza dentro l’elicottero.
Lasciato quindi il cammello a puzzare da solo e facendosi sera, siamo tornati verso casa per la cena, dove ci attendevano, già in affanno intorno ai fornelli, le nove mogli e le tredici suocere. Finito di cenare, siamo usciti in cortile a vedere i suggestivi bombardamenti notturni in atto nella vicina città di Al-Amhal-Qsura e, mentre eravamo fissi con gli occhi al cielo, ci è piovuto addosso un missile proveniente dall’ufficio postale di Kask-Wasit-Abel, il paese immediatamente vicino, dove c’è anche un ospedale da campo senz'acqua. Passato lo spavento iniziale per lo scampato pericolo, quando ci siamo accorti che il missile non era esplosivo ma che apparteneva a un tipo di posta celere in uso da quelle parti, Yussef, più pratico di me perché la dichiarazione dei redditi gli viene sempre recapitata con quel sistema, ha aperto lo sportellino sul fianco e ne ha estratta una lettera. «Dev’essere tua moglie che ti scrive». Mi ha detto, visibilmente preoccupato porgendomi la busta a me intestata. Così, l’ho aperta e ho letto ad alta voce in modo tale che anche Yussef potesse sentire: «Mio adorato, so che dove sei ti trovi bene e sei in buona compagnia, ma devi rientrare immediatamente a casa. Pare che qualcuno si sia lamentato per le continue sparizioni della benzina dai serbatoi delle macchine nel parcheggio condominiale, e così l’amministratore ha convocato una riunione urgente di tutti i condòmini. Altrimenti dice che avvisa i Carabinieri e poi sono cazzi. Si è molto raccomandato di non mancare! Mi manchi. Torna presto. Ti amo, sempre tua, Cunegonda».
Dovevo partire immediatamente. E anche se era notte fonda e dovevamo ancora giocare a luna monda, mi attendeva Cunegonda. Yussef ha molto insistito perché partissi la mattina seguente, all’alba, ma io gli ho fatto capire che di notte, in volo, sarei stato più al sicuro. Avrei volato a bassa quota, gli ho spiegato, per non essere individuato dai radar, e inoltre, non avendo adeguate contromisure elettroniche e volando a vista, avrei avuto il tempo di accorgermi dei temibilissimi SAM terra-aria diretti su di me ed evitarli. Yussef, con le lacrime agli occhi dal dolore per vedermi partire, ed io per il troppo peperoncino del pasticcio di melanzane e montone in fricassea ancora da digerire, ci siamo abbracciati giurando solennemente che, condòmini e Carabinieri permettendo, ci saremmo rivisti quanto prima.
«E… il cammello? Che fai, allora davvero non te lo prendi?», è tornato alla carica il buon Yussef.
Kámêlon, che era poco distante e che sembrava quasi essersi accorto della mia partenza, aveva lanciato un
Ma siccome non ci entrava tutto, gli è restata la testa di fuori. “Speriamo che non gli finisca nel giramento di pale che mi sta venendo”, ho mormorato sottovoce mentre mettevo in moto il birotore, “altrimenti siamo fottuti!”
Il camelide, che era intelligente, avvertita al primo giro di pala la scorticatura del cuoio capelluto si è tenuto basso e così siamo riusciti a decollare senza danni alle pale. Ho fatto un paio di giri a spirale sopra la casa di Yussef per salutarlo, e per l’occasione, lasciati da parte i fornelli dove già stavano preparando la colazione per la mattina seguente, erano uscite anche le mogli e le suocere che agitavano tegami e cosce di tacchino con le melanzane e la curcuma in segno di saluto. Impostato il navigatore a vista verso la Sardegna, ho preso la via del ritorno sperando nella buona sorte.
Poi, di quello che è accaduto a Kámêlon, lo spiegherò con calma anche a Yussef. Gli scriverò una bella lettera, magari invitandolo a passare una settimana da noi, e anche se Kámêlon non è passato per la cruna di un ago, gli dirò, vedessi in compenso con quale velocità è uscito dall’elicottero!
Sono certo che Yussef, da uomo di mondo qual è, capirà.
Chissà perché i tuoi post mi portano sempre nella realtà.
RispondiEliminaOggi se anche il tuo viaggio fantasioso ma così vicino alla realtà non fa quasi ridere, ma molto preoccupare.
Ci troviamo in un mondo inquieto dove nessuno sa quello che fa, sono tutti abbagliati dal potere...
Ciao caro amico speriamo che ci riflettano.
Tomaso
Ciao Tomaso, stai tranquillo che in questo post stavo davvero scherzando!
RispondiEliminaHai visto che bel cammello mi sono fatto?
Un caro saluto e buona notte, caro amico.
Ciao, Francesco